Premesso che, al riguardo, saranno a breve emanate dal Consiglio una serie di norme e/o integrazioni volte ad adeguare il vigente Codice deontologico forense alle fattispecie emerse a seguito dell’entrata in vigore della disciplina della mediazione-conciliazione ex D.Lvo n. 28 del 2010 e del coinvolgimento della figura dell’Avvocato in ambiti operativi diversi da quelli professionali, le disposizioni vigenti consentono comunque, ad avviso della Commissione, di rispondere compiutamente.
Entrambe le fattispecie richiamate dal COA di Roma sono in parte riconducibili alla previsione recata dall’art. 19 del cod. deont., atteso che l’obbligatorietà ex art. 5 D.Lvo n. 28/2010 indurrebbe la frequentazione dello studio legale, nel quale ha sede un Organismo di mediazione, da parte di tutti coloro che debbano o ritengano opportuno esperire, ovviamente per il tramite di quell’Organismo, il procedimento di mediazione. Ne consegue che l’aver consentito l’insediamento di un Organismo nei locali ove si svolge l’attività professionale forense costituirebbe una condotta potenzialmente rivolta all’acquisizione di clientela con strumenti surrettizi, quindi non conformi a correttezza e decoro. A sostegno di tale orientamento può anche richiamarsi una precedente decisione del Consiglio in sede giurisdizionale, la n. 95 del 23/4/2004, confermata dalle S.U. della Suprema Corte con la sentenza n. 309/2005.
Ai quesiti posti dal COA di Roma, limitatamente alla parte in cui ci si interroga sulla liceità di stabilire in uno studio legale sia la sede dell’Organismo di mediazione e conciliazione, sia il luogo nel quale vengono esperiti i procedimenti di mediazione, si potrà quindi rispondere nei seguenti termini:
Si rende responsabile di violazione dell’art. 19 del cod. deont. l’avvocato che consenta l’insediamento nel proprio studio di un Organismo di mediazione ex D.Lvo n. 28/2010 e/o consenta ad altri od in via sistematica di svolgere nel proprio studio il procedimento di mediazione di cui agli artt. 3 e ss. del decreto anzidetto.
La possibile contiguità fra uno studio legale ed un ente di formazione, di cui all’art. 17 del D.M. n. 180/2010, richiede invece, rispetto al precedente interrogativo, ulteriori approfondimenti.
L’ente di formazione, infatti, in quanto preposto alla formazione dei mediatori, non potrebbe direttamente consentire all’Avvocato che ne ospiti la sede di acquisire nuova clientela. Allo stato, inoltre, la normativa non prevede l’obbligatorietà della difesa tecnica nei procedimento obbligatori di mediazione, sicchè l’avvocato ospitante non potrebbe trarre giovamento dalla possibile conoscenza personale dei futuri mediatori, i quali, infatti, potrebbero fornire indicazioni partigiane per la necessaria scelta del difensore a coloro che si rivolgessero all’Organismo nel quale operano.
Poiché, però, la difesa tecnica, non è vietata e l’avvocato potrebbe perciò partecipare al procedimento, non si può trascurare che la personale conoscenza dei futuri mediatori, da parte dell’avvocato ospitante l’ente formatore, potrebbe interferire con il corretto svolgimento del tentativo di mediazione e conciliazione, in quanto sarebbe in dubbio il dovere di neutralità, indipendenza ed imparzialità che compete al mediatore-conciliatore ex art. 60, comma 3, lett. r), della legge n. 69/2009 (legge delega in materia di mediazione e conciliazione delle controversie civili e commerciali).
La comunanza della sede, intesa come evento di pericolo, potrebbe perciò comportare la violazione dell’art. 6 del cod. deont., in quanto l’attività dell’avvocato non verrebbe potenzialmente svolta con lealtà e correttezza. Ma la succitata circostanza potrebbe anche essere causa di patti scellerati, la cui commissione costituirebbe un vulnus inammissibile del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, atteso che una o più delle parti del procedimento si troverebbero inconsapevolmente in posizione di debolezza.
Ritiene, infine, la Commissione, che l’eventuale rapporto societario o di associazione intercorrente fra l’avvocato e l’ente formatore non sia indifferente al rapporto che si stabilisce fra l’avvocato suddetto, in quanto eventuale difensore di una delle parti del procedimento di mediazione, ed il mediatore formatosi nell’ente del quale il difensore è socio. La terzietà del mediatore sarebbe, infatti, irrimediabilmente in dubbio.
La medesima circostanza, peraltro, porta ad individuare la violazione ex se dell’art. 16, comma 2, del cod. deont. in relazione al divieto di esercizio del commercio, considerato che l’attività dell’ente formatore viene remunerata da coloro che chiedono di essere formati.
Sotto diverso profilo, poi, si potrebbe anche ritenere violato il dovere sancito dall’art. 7, comma 2, del cod. deont., in quanto l’avvocato potrebbe venir meno al generale dovere di adoperarsi per la tutela del diritto.
Per quanto sopra e ferma restando l’opportunità di ulteriori riflessioni sui temi richiamati dai quesiti in argomento, attesa la novità della materia, la Commissione ritiene che si possa rispondere all’ulteriore interrogativo posto dal COA di Roma come segue:
L’avvocato non può consentire nel proprio studio sia l’insediamento della sede dell’ente formatore dei mediatori di cui agli artt. 17 e ss. del D.M. n. 180/2010, sia l’effettuazione dei corsi di formazione dell’ente medesimo.
L’avvocato non può assumere la veste di socio, ovvero di associato, di un ente formatore di cui agli artt. 17 e ss. del D.M. n. 180/2010.
Consiglio Nazionale Forense (rel. Merli), parere del 14 luglio 2011, n. 70
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 70 del 14 Luglio 2011- Consiglio territoriale: COA Roma, delibera (quesito)
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