[…] Diversamente, qualora la nomina sia di fonte giudiziale (ad esempio ex art. 2487 c.c., comma 2°), il CNF ha ritenuto – sia pure nel vigore della disciplina precedente alla L. 247/2012 – che tale incarico non sia incompatibile con l’iscrizione all’Albo professionale, poiché mancano del tutto quelle caratteristiche che assimilerebbero l’avvocato al comune imprenditore, e, in particolare, l’assunzione di un rischio d’impresa, l’esistenza di uno scopo di lucro diretto e personale, l’utilizzo del proprio nome e patrimonio a fini di commercio (vedasi Consiglio Nazionale Forense, parere del 16 marzo 2007, n. 8).
Tradizionalmente il divieto di cui si discute è stato correlato al generale divieto di svolgere attività imprenditoriale, il cui rischio avrebbe potuto comportare per l’avvocato la sottoposizione alla procedura fallimentare, con le conseguenze del caso.
Tuttavia, la recente abrogazione della Legge fallimentare con l’introduzione del Codice della Crisi potrebbe consentire di rivalutare l’orientamento assunto, considerando:
- Che la nomina giudiziale e la nomina sociale non comportano una distinzione tra le successive responsabilità e poteri del liquidatore.
- Che il liquidatore di una società di capitali non risponde delle perdite sociali, essendo la sua responsabilità correlata esclusivamente alla mala gestio e, quindi, in misura analoga ad ogni attività professionale.
- Che il nuovo Codice della Crisi prevede la liquidazione giudiziale come estrema ratio e in forma residuale rispetto agli altri strumenti di soluzione della crisi d’impresa, con esclusione in ogni caso della perdita dei diritti civili e politici per l’amministratore.
- Che in ogni caso la liquidazione societaria impone il divieto di nuove operazioni, così escludendo di fatto l’esercizio dell’attività imprenditoriale, se non limitata alla liquidazione dell’attivo e al pagamento del passivo e ripartizione finale in favore dei soci”.
* * *
Onde dare compiuto riscontro al suddetto quesito, si espone quanto segue.
Innanzitutto, l’art. 6 del Codice Deontologico Forense prescrive che l’avvocato, per un verso, “deve evitare attività incompatibili con la permanenza dell’iscrizione all’albo” (art. 6, comma 1) e, per altro verso, “non deve svolgere attività comunque incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense” (art. 6, comma 2).
Ciò posto, l’art. 18 della Legge n. 247/2012 dispone che la professione di avvocato è incompatibile, tra l’altro, alla lett. b), “con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale svolta in nome proprio o in nome o per conto altrui. È fatta salva la possibilità di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa”.
A tanto, inoltre, si aggiunga che il CNF, con precedente parere n. 28 del 24 maggio 2012 (sia pure con riferimento all’art. 3 R.D.L. 27/11/1933 n. 1578, a norma del quale l’esercizio della professione forense è incompatibile “con l’esercizio del commercio in nome proprio ed altrui”) – richiamato, però, da ultimo con il parere n. 50 del 20 dicembre 2022 – ha avuto modo di evidenziare che “La ragione dell’incompatibilità discende quindi dall’assunzione di una carica sociale che comporta poteri di gestione e di rappresentanza essendo irrilevante la distinzione tra effettività dell’attività commerciale e titolarità della carica incompatibile posto che quest’ultima abilita comunque allo svolgimento ‹‹dell’esercizio del commercio››. La ratio dell’incompatibilità (che è quella di evitare i condizionamenti all’esercizio indipendente della professione…) verrebbe infatti elusa dalla potenziale idoneità della carica sociale a compromettere l’indipendenza dell’avvocato, assoggettandola alle dinamiche della concorrenza”.
Ne deriva che l’attività professionale è incompatibile non solo con l’esercizio dell’attività d’impresa commerciale in nome proprio ovvero in nome o anche per conto di altri ed ogniqualvolta che ciò comporti l’esercizio di diritto o di fatto di poteri gestori all’interno di una società.
In questa prospettiva, dunque, il CNF si è espresso non solo con il pareri del 17 luglio 2015, n. 71, ma anche con il successivo parere del 21 settembre 2016, n. 91, ove è stato affermato che: “Il principio da riaffermare è che l’avvocato è irrimediabilmente incompatibile ad assumere l’incarico di A.U., amministratore delegato o liquidatore (in senso societario e non nell’ambito di una procedura concorsuale per nomina del Tribunale o del ministero competente) di una qualsiasi società di capitali, indipendentemente dalla composizione del suo capitale sociale”. Le sole eccezioni al divieto, dunque, sono tipizzate al medesimo art. 18 nella misura in cui è ivi prescritto che: – “È fatta salva la possibilità di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa” (art. 18, lett. b, ultimo inciso); – “L’incompatibilità non sussiste se l’oggetto della attività della società è limitato esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o familiari, nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico” (art. 18, lett. c, ultimo inciso).
D’altronde, l’art. 2489 c.c. (rubricato “Poteri, obblighi e responsabilità dei liquidatori”), nell’attuale formulazione novellata all’esito della riforma delle società di capitali, allorquando determina i poteri dei liquidatori fa riferimento al criterio della mera utilità, disponendo, al primo comma, che “i liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società”); scompare, dunque, ogni riferimento alla “necessità” dei singoli atti ai fini della liquidazione, con conseguente superamento del divieto di compiere operazioni nuove. L’utilità dei singoli atti dei liquidatori va, dunque, valutata in concreto, di talché sarà utile l’atto gestorio ove esso sia funzionale alla conservazione ovvero anche alla valorizzazione del patrimonio sociale o ancora alla semplificazione del procedimento di liquidazione ed estinzione della società.
In tale ampio raggio di operatività, quindi, rientra certamente l’esercizio dell’impresa funzionale alla liquidazione.
Peraltro, l’art. 2487 c.c. prescrive che, al ricorrere di una causa di scioglimento della società, va convocata l’assemblea dei soci affinché, con le maggioranze e modalità previste per la modifica dell’atto costitutivo e dello statuto, deliberi:
- non solo sul numero dei liquidatori e sulle regole di funzionamento del collegio in caso di pluralità di liquidatori (lett. a) e sulla concreta nomina dei liquidatori, con indicazione di quelli cui spetta la rappresentanza della società (lett. b);
- ma anche sui “criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione; i poteri dei liquidatori, con particolare riguardo alla cessione dell’azienda sociale, di rami di essa, ovvero anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi; gli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo” (lett. c).
Insomma, di regola il liquidatore svolgerà un’attività che può ben concretizzarsi nell’esercizio provvisorio dell’impresa o di singoli rami; tale interpretazione, inoltre, vale anche per i poteri dei liquidatori di società di persone in ragione del tenore ampio dell’art. 2278, comma 1, c.c., a mente del quale: “I liquidatori possono compiere gli atti necessari per la liquidazione e, se i soci non hanno disposto diversamente, possono vendere anche in blocco i beni sociali e fare transazioni e compromessi”.
Dalle superiori considerazioni, dunque, emerge che:
- il precetto in tema di incompatibilità prescritto all’art. 18 L.P. trova la sua ratio nella necessità di evitare i condizionamenti all’esercizio indipendente della professione, sussistenti laddove il professionista ricopra un incarico comportante l’esercizio di attività gestoria di impresa;
- anche al liquidatore di società è richiesta un’attività con chiari profili gestori dell’impresa, benché funzionali alla migliore liquidazione del patrimonio sociale.
Fermo quanto innanzi, non sembra che la recente introduzione del Codice della crisi possa consentire di rivalutare l’orientamento assunto dal CNF con i citati pareri n. 71 del 2015 e n. 91 del 2016, non foss’altro perché la funzione dell’incompatibilità di cui si tratta non è tanto correlata alle conseguenze derivanti dallo svolgimento dell’incarico di liquidatore ovvero alle potenziali sanzioni cui questi possa incorrere, bensì alla tutela dell’indipendenza ed autonomia dell’avvocato quale gestore di un’impresa.
Infine, va pure chiarito che, al ricorrere di una causa di scioglimento, il liquidatore viene di regola nominato dai soci (con le modalità proprie rispettivamente di ciascun tipo di società). Tuttavia, per le società di capitali, l’art. 2487, comma 2, c.c., sancisce che, nel caso in cui gli amministratori omettano di dare impulso al procedimento di nomina dei liquidatori ovvero se l’assemblea, pur all’uopo convocata, non si costituisca o non deliberi, il tribunale, su istanza di singoli soci o di amministratori o dei sindaci, provvede alla nomina del liquidatore; anche per le società di persone per le quali ricorra una causa di scioglimento, poi, è prevista, in caso di disaccordo dei soci, la nomina del liquidatore da parte del presidente del tribunale ai sensi dell’art. 2278, comma 1, c.c..
L’intervento suppletivo del tribunale, dunque, assume il ruolo di strumento generale per consentire che la società, ormai in stato di scioglimento, venga liquidata attraverso il procedimento di liquidazione volontaria (ex artt. 2484 e s.s. c.c. per le società di capitali ovvero ai sensi degli artt. 2272 e ss. per le società di persone), superando l’inerzia degli amministratori ovvero il disaccordo tra i soci; ciononostante, la circostanza che il liquidatore venga nominato dai soci ovvero sia di nomina giudiziale ai sensi dell’art. 2487 c.c. (per le società di capitali) ovvero dell’art. 2278 c.c. (per le società di persone), non ne muta la funzione ed i compiti, lasciando intatto il profilo di gestione a questi richiesto, oltre che i correlati profili di incompatibilità. Di qui, la conseguenza per cui l’incompatibilità dell’avvocato ad assumere l’incarico di liquidatore ricorre vuoi in caso di nomina da parte dei soci, vuoi in caso di nomina giudiziale ai sensi degli artt. 2278, comma 1, 2487, comma 2, c.c.
Fattispecie diverse, invece, sono quelle contemplate espressamente al citato art. 18, lett. b), L.P. quali eccezioni al regime dell’incompatibilità, riguardanti la possibilità per l’avvocato di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa; in tali casi, infatti, la compatibilità per l’avvocato ad assumere simili incarichi si giustifica nella misura in cui la sua attività è inserita nell’alveo di un procedimento (quale è propriamente quello di natura concorsuale) che prevede (variamente ed a seconda del tipo di procedura) l’impiego di mezzi e strutture dell’apparato giurisdizionale, nell’ambito delle quali, quindi, l’avvocato esercita la propria tipica attività (legale e di natura tecnica).
Consiglio nazionale forense, parere n. 19 del 31 maggio 2023
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 19 del 31 Maggio 2023- Consiglio territoriale: COA Palermo, delibera (quesito)
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