L’avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto di questa e di rendergliene conto (art. 31 ncdf, già 44 cdf), a pena di illecito deontologico, che prescinde dalla sussistenza o meno di eventuali rilievi della condotta stessa dal punto di vista penalistico (appropriazione indebita) o civilistico (compensazione), posto che l’ordinamento forense, solo in minima parte influenzato dagli altri, ha nella propria autonomia meccanismi diversi per valutare il disvalore attribuito alla condotta e la sua gravità. Infatti, le ragioni e i principi che presiedono al procedimento disciplinare hanno ontologia diversa rispetto a quelli che attengono al governo dei diritti soggettivi, riguardando la condotta del professionista quale delineata attraverso l’elaborazione del codice deontologico forense e quale risultante dal dovere di correttezza e lealtà che deve informare il comportamento dello stesso; diversi sono i presupposti e le finalità che sottendono all’esercizio disciplinare e che con il provvedimento amministrativo si perseguono; diversa è l’esigenza di moralità che è tutelata nell’ambito professionale. L’illiceità disciplinare del comportamento posto in essere dal professionista deve, pertanto, essere valutata solo in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale, a nulla rilevando l’eventualità che tali comportamenti non siano configurabili anche come illeciti civili o penali.
Consiglio Nazionale Forense (pres. Mascherin, rel. Picchioni), sentenza del 23 dicembre 2017, n. 235
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 235 del 23 Dicembre 2017 (respinge) (sospensione)- Consiglio territoriale: COA Nola, delibera del 11 Novembre 2014 (sospensione)
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