La Commissione osserva come costituisca principio inequivoco quello secondo il quale la riservatezza delle corrispondenza è volta, nel preminente interesse del cliente, da un lato a consentire ampiezza e libertà di comunicazione e collaborazione tra i legali nella trattazione delle lite e, dall’altro, a conservare una posizione di estraneità al contenzioso senza personalizzare la vicenda, sì da mantenere la propria assistenza all’ambito esclusivamente tecnico.
Tali essendo le premesse non può certo affermarsi che il diritto alla riservatezza possa porsi come causa di giustificazione per gli eventuali reati di diffamazione e/o ingiuria commessi a mezzo della corrispondenza stessa.
La riservatezza, rectius il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza riservata, opera in riferimento alla pendenza di un giudizio, o di una trattativa stragiudiziale, ma non nel senso di imporre agli avvocati di dover conservare nel proprio foro interno, senza trarne le dovute conseguenze, quanto sia stato espresso nelle comunicazioni in modo offensivo e/o ingiurioso a loro carico.
In ipotesi di illecito penale e/o disciplinare, la lettera diviene il mezzo di commissione dell’illecito (onde sarebbe passibile di sequestro nel primo caso) ed opinare diversamente significherebbe far assurgere la riservatezza della corrispondenza a condizione di non punibilità per quanto di rilievo penale o disciplinare eventualmente contenuto nella stessa.
Talché l’avvocato ha sicuramente diritto di svolgere le azioni civili e/o penali e/o disciplinari qualora ritenga di essere stato offeso e/o ingiuriato per il tramite di una lettera utilizzando la stessa, trattandosi di legittimo esercizio di un diritto.
Al secondo quesito deve darsi risposta negativa premettendosi come sussista, stante l’inequivoco tenore dell’art. 20 c.d.f., legittimazione dell’avvocato a richiedere l’intervento del C.O.A. in ipotesi di lettere di colleghi che contengano espressioni offensive e/o diffamatorie e/o ingiuriose nei confronti di terzi.
Tanto premesso, non può ritenersi che l’avvocato sia autorizzato a consegnare la corrispondenza riservata al proprio cliente: il canone complementare III dell’art. 28 c.d.f. prevede espressamente tale divieto di consegna estendendolo anche a carico dell’eventuale nuovo difensore.
Né può indurre a diverse conclusioni l’accorgimento di coprire con omissis le parti ritenute irrilevanti perché il divieto opera per le missive riservate sotto il profilo documentale e nella loro interezza, ma non frazionatamente nel corpo delle stesse.
Va rilevato ulteriormente, per sottolineare l’inammissibilità di diversa soluzione, che opinare diversamente comporterebbe l’attribuzione all’avvocato del potere di provocare, impedire, favorire e/o orientare con diversa incisività le eventuali iniziative disciplinari-giudiziali nei confronti di colleghi facendo apparire (o meno) tutte (o alcune) le frasi “incriminate”.
Il superamento del divieto di cui al canone III dell’art. 28 c.d.f. neppure potrebbe essere giustificabile con l’intento di ampliare la tutela al proprio assistito perché il fedele e corretto espletamento del mandato difensivo non può assumere maggior pregio ed efficacia grazie alla violazione del vincolo di riservatezza della corrispondenza tra colleghi.
Tale principio fondamentale, che non può essere modulato sulla base della maggiore o minore illiceità delle locuzioni contenute nelle lettere, è , come si è osservato, previsto nel preminente interesse “giudiziale” del cliente che, in un ottica di bilanciamento tra le contrapposte esigenze, deve ritenersi prevalente sull’interesse “privato” della parte ad esercitare eventuali azioni a tutela della propria immagine compromessa nell’ambito di una corrispondenza riservata.”
Consiglio Nazionale Forense (rel. Picchioni), parere del 14 gennaio 2011, n. 15
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 15 del 14 Gennaio 2011- Consiglio territoriale: COA Trento, delibera (quesito)
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