Il quesito, così come posto, non può trovare soluzione senza una preliminare disamina della natura giuridica e delle caratteristiche del contratto di collaborazione continuativa a progetto, meglio noto con l’acronimo Co.co.Pro.
Tale strumento rappresenta l’evoluzione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa, comunemente definito Co.Co.Co., con il quale si era introdotta la possibilità di instaurare, in alternativa al rapporto di lavoro dipendente, una nuova forma di rapporto lavorativo, quello di collaborazione. Questa forma contrattuale, originariamente risultò spesso elusiva della instaurazione di un vero e proprio rapporto di dipendenza. In sostanza, nella pratica, si faceva ricorso ad un tale istituto per porre in essere un rapporto di lavoro che aveva tutte le caratteristiche di fatto di quello del lavoro dipendente, senza rispettarne le tutele e la disciplina giuridica. Al fine di evitare abusi e strumentalizzazioni dell’istituto, nella ridefinizione dei contratti di lavoro individuali, con la legge c.d. Biagi i Co.Co.Co., vennero sostituiti dai Co.Co.Pro. La fondamentale differenza consisteva nel fatto che mentre i primi erano a tempo indeterminato, i secondi avevano una durata prefissata e, mentre, i redditi derivanti dai primi erano assimilati, ai fini fiscali, a redditi da lavoro dipendente, i secondi, sempre in materia fiscale, sono assimilati a redditi da lavoro autonomo.
Elemento centrale di questo contratto di lavoro è da individuarsi nello stretto legame tra prestazione lavorativa e progetto, infatti, i contratti di lavoro devono essere ricondotti ad uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro oppure a fasi di un programma di lavoro che deve essere gestito autonomamente dal lavoratore a progetto in funzione del risultato. La durata del contratto deve essere determinata o determinabile in maniera funzionale al progetto. In sostanza il legislatore obbliga le parti a definire un’attività produttiva ben identificabile funzionalmente collegata alla realizzazione di un risultato finale che può essere connessa all’attività principale oppure riguardare un’attività accessoria dell’impresa committente. Ne discendono come caratteristiche: l’autonomia del collaboratore in funzione del risultato, l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione nonché l’assenza di un vincolo di subordinazione.
Naturalmente sarà necessario analizzare ogni singola fattispecie contrattuale per verificarne la reale natura.
Ciò premesso ai fini del corretto inquadramento del Co.co.pro., al fine di verificare un’eventuale incompatibilità con l’esercizio dell’attività professionale, è necessario stabilire se un tale tipo di lavoro debba o meno rientrare nella previsione dell’art. 3 RDL 1578/33 che stabilisce l’incompatibilità dell’esercizio della professione di Avvocato “con qualunque impiego o ufficio retribuito” a carico dello stato o di enti pubblici ed, inoltre, “con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”.
La norma evidentemente ha riguardo al rapporto di lavoro subordinato, in quanto, questo farebbe venir meno quella posizione di indipendenza, sia economica che morale, che costituisce caratteristica fondamentale delle professioni liberali e, in particolare, di quella forense, cosicché, a tutta prima, sembrerebbe che la semplice esistenza di un rapporto di lavoro, sia esso subordinato o parasubordinato, costituisca causa ostativa all’ottenimento dell’iscrizione all’Albo. In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione, che ha ritenuto, in tempi antecedenti al moltiplicarsi delle forme contrattuali caratterizzanti il mondo del lavoro, che le incompatibilità tra iscrizione all’Albo e “l’impiego retribuito” non si esaurisca con il solo richiamo al lavoro subordinato, ma si estenda anche a tutte quelle fattispecie nelle quali un lavoro continuativo e retribuito faccia venire meno, per le modalità attraverso cui si estrinseca, la libertà ed indipendenza del professionista. Una tale interpretazione consente di adattare la previsione alla rapida evoluzione delle normative inerenti il mondo del lavoro. Infatti, la compatibilità con l’esercizio professionale di un rapporto di lavoro continuativo deve essere valutata caso per caso sussistendo l’incompatibilità in relazione alla durata, all’oggetto, ma soprattutto all’organizzazione. Quanto alla durata, è certamente da escludersi nel caso di un rapporto di lavoro che assuma caratteristiche di durata indeterminata. Quanto all’oggetto, questo deve essere certamente determinato, non suscettibile di pattuizioni di esclusiva, non esteso genericamente a tutta l’attività del professionista, dovendo essere compatibile con lo svolgersi di attività libero professionale in favore di altri clienti. Infine, con riguardo all’organizzazione il professionista dovrà avere una sua struttura professionale distinta da quella del cliente con cui ha sottoscritto il contratto di collaborazione, e il professionista non dovrà essere inserito nell’organizzazione produttiva del cliente, né soggetto al potere di controllo e direzione dello stesso. Ove mai, con riferimento al singolo caso specifico, il Consiglio dell’Ordine, nella cui esclusiva competenza ricade il potere d’iscrizione, constati la sussistenza dei sopradetti elementi il rapporto di lavoro va considerato autonomo piuttosto che subordinato e, quindi, compatibile con l’esercizio professionale
La risposta al quesito è resa pertanto nei termini seguenti. Ferma restando l’esclusiva competenza dei Consigli territoriali a decidere dell’iscrizione agli albi e registri, gli stessi dovranno valutare caso per caso gli elementi costitutivi e caratterizzanti il rapporto di lavoro, che dovrà considerarsi autonomo, e quindi compatibile con l’iscrizione e l’esercizio professionale, tutte le volte che abbia una durata e un oggetto determinati, che l’oggetto della prestazione non sia suscettibile di pattuizione di esclusiva e sia compatibile con l’attività prestata in favore di altri clienti e che il professionista mantenga una sua struttura professionale distinta e diversa da quella del cliente e non sia allo stesso legato da vincolo di soggezione, direzione e controllo, con particolare attenzione alla sussistenza effettiva e reale dei requisiti strutturali di cui sopra.
Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere 11 luglio 2012, n. 47
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 47 del 11 Luglio 2012- Consiglio territoriale: COA Parma, delibera (quesito)
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