Coerentemente a quanto stabilito dall’art. 38 r.d.l. n. 1578/1933, il primo comma dell’art. 5 del CDF prescrive che l’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro. Il rispetto di questi valori, pertanto, deve necessariamente costituire lo stile di vita dell’avvocato non solo nell’esercizio della professione ma anche in ogni altra sua manifestazione non riservatamente privata. La logica di questo assunto è evidente. Il contegno dell’avvocato deve essere adeguato al prestigio della classe forense che impone comportamenti individuali ispirati a valori positivi ed immuni da ogni possibile giudizio di biasimo civile, etico o morale. Per questo il n. 2 del citato art. 5 assoggetta l’avvocato a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività professionale quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense. Non può pertanto sottrarsi ad un giudizio di indecorosità e di oggettiva aggressione all’immagine della classe forense il comportamento del professionista le cui espressioni usate verso una collega in un pubblico contesto risultino oggettivamente ed impudicamente licenziose oltre ogni limite di buona educazione. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Roma, 16 ottobre 2007).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. CARDONE, rel. MAURO), sentenza del 27 novembre 2009, n. 134
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 134 del 27 Novembre 2009 (respinge)- Consiglio territoriale: COA Roma, delibera del 16 Ottobre 2007
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