Posto che le previsioni del codice deontologico forense hanno la natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e possono ispirarsi legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività, al fine di garantire l’esercizio del diritto di difesa all’interno del procedimento disciplinare che venga intrapreso a carico di un iscritto al relativo albo forense è necessario che all’incolpato venga contestato il comportamento ascritto come integrante la violazione deontologica e non già il “nomen juris” o la rubrica della ritenuta infrazione, essendo libero il giudice disciplinare di individuare l’esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali richiamanti il dovere di astensione da contegni lesivi del decoro e della dignità professionale, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme. (Nella specie, le Sezioni unite, alla stregua del principio enunciato, hanno rigettato il ricorso proposto da un avvocato colpito dalla sanzione dell’avvertimento, sul presupposto della legittimità del procedimento disciplinare espletato, fondato su un’incolpazione riconducibile all’uso di espressioni sconvenienti ed offensive nei riguardi di un collega, prevista dall’art. 20 del c.d. codice deontologico, sulla scorta della quale non era rimasto impedito in capo al giudice disciplinare di ravvisare la più generale ipotesi contemplata dall’art. 22, comma primo, dello stesso codice, poiché la condotta contestata integrava indiscutibilmente gli estremi di un contegno contrario a correttezza e lealtà verso il collega). (Rigetta, Cons. Naz. Forense Roma, 22/12/2007)
Cassazione Civile, sez. Unite, 07 luglio 2009, n. 15852- Pres. Carbone Vincenzo- Est. Macioce Luigi- P.M. Martone Antonio
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