Il principio, enunciato in una decisione in materia disciplinare dal Consiglio Nazionale Forense, secondo cui viola la deontologia professionale l’instaurazione da parte di un avvocato di una prassi consistente nella richiesta indiscriminata ad ogni cliente di emolumenti stabiliti in misura corrispondente a quella massima prevista dalle tariffe forensi o di compensi diversi e maggiori di quelli tariffariamente previsti – in quanto si pone in contrasto con un principio consuetudinario recepito nel codice deontologico forense approvato il 17 aprile 1997, per il quale di massima l’avvocato non deve chiedere compensi sproporzionati all’attività in concreto svolta e il cliente, a sua volta, ha diritto di pagare compensi ragguagliati alla quantità e qualità delle prestazioni di fatto ricevute -, non è in contraddizione con il principio più generico circa l’ammissibilità e la validità di convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti dai clienti agli avvocati, anche con previsione di misure eccedenti quelle previste dalle tariffe forensi; ne consegue l’inidoneità, in relazione ad una decisione in tal senso motivata, del motivo di ricorso per cassazione basato sul richiamo di quest’ultimo principio. (Nella specie, l’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare faceva sottoscrivere ai clienti clausole, contenute nei mandati a margine degli atti processuali, prevedenti l’obbligo di pagamento delle competenze professionali nel massimo di tariffa, nonché l’equiparazione ai fini del compenso delle conferenze telefoniche alle conferenze di trattazione).
Cassazione Civile, sentenza del 26 febbraio 1999, n. 103, sez. U- Pres. Vessia A- Rel. Paolini G- P.M. Dettori P (Conf.)
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