Il divieto di prestare attività professionale in conflitto di interessi anche solo potenziale (art. 24 cdf, già art. 37 codice previgente) risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza (in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente), dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri, anche la dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone, quindi a tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale. Conseguentemente: 1) poiché si tratta di un valore (bene) indisponibile, neanche l’eventuale autorizzazione della parte assistita, pur resa edotta e, quindi, scientemente consapevole della condizione di conflitto di interessi, può valere ad assolvere il professionista dall’obbligo di astenersi dal prestare la propria attività; 2) poiché si intende evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato, perché si verifichi l’illecito (c.d. di pericolo) è irrilevante l’asserita mancanza di danno effettivo (Nel caso di specie, l’avvocato aveva assunto la difesa del fratello in due giudizi pendenti nei confronti di un proprio cliente in costanza di rapporto professionale con quest’ultimo).
Consiglio Nazionale Forense (pres. Mascherin, rel. Vannucci), sentenza n. 206 del 30 dicembre 2019
Classificazione
- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 206 del 30 Dicembre 2019 (respinge) (avvertimento)- Consiglio territoriale: COA Patti, delibera del 29 Gennaio 2014 (avvertimento)
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