Quesito della Presidenza del Consiglio – Dipartimento Politiche Comunitarie

È pervenuta alla Commissione consultiva la seguente richiesta di parere, formulata dalla Presidenza del Consiglio – Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie. La Commissione, dopo ampia discussione, ha approvato un parere in data 25 marzo 2011. Il testo è stato sottoposto al voto del plenum del Consiglio, che lo ha approvato definitivamente in data …., deliberando di esprimere la posizione del CNF sotto forma di circolare in ragione del diffuso ed attuale interesse della problematica per gli ordini forensi.

Il quesito è il seguente: “Il Centro SOLVIT Italia, che opera presso il Dipartimento Politiche Comunitarie della Presidenza del Consiglio e costituisce il punto di contatto nazione della rete SOLVIT della Commissione Europea – D.G. Mercato Interno, ha ricevuto numerosi reclami dell’omologo Centro spagnolo relativamente a cittadini italiani laureati in giurisprudenza in Italia che hanno omologato il proprio titolo di studio in Spagna, conseguendo così l’abilitazione all’esercizio della professione forense secondo le norme di quello Stato. A fronte delle istanze di iscrizione nella sezione speciale per avvocati stabiliti dell’albo professionale, vari Consigli dell’Ordine hanno richiesto informazioni in merito, tra l’altro, all’effettivo svolgimento di attività professionale nel Paese estero e al grado di conoscenza della lingua straniera ivi praticata. Sembrerebbe anche che alcuni Consigli, oltre a decidere di sospendere le domande di iscrizione in attesa dell’acquisizione delle predette informazioni, avrebbero, altresì, deliberato di riesaminare tutte le iscrizioni effettuate fino ad oggi.
Questa prassi potrebbe configurare una violazione del diritto dell’Unione Europea, in particolare della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica e dei principi di cui alla direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.
In effetti, benché la Corte di Giustizia abbia dichiarato che le disposizioni sul riconoscimento delle qualifiche professionali non possano essere invocate al fine di accedere ad una professione regolamentata in uno Stato membro ospitante, da parte del titolare di una qualifica rilasciata da un’autorità di un altro Stato membro che non sanzioni alcuna formazione prevista dal sistema di istruzione di tale Stato e non si fondi né su di un esame né su di una esperienza professionale acquisita in detto Stato membro, tale principio è applicabile solo nei casi in cui l’omologazione del titolo acquisito in un altro Stato non attesti alcuna qualifica supplementare e quindi non sia fondata sulla verifica delle qualifiche o delle esperienze professionali acquisite in quello Stato (cfr. sentenza 29 gennaio 2009, causa C-311/06, Cavallera).
Nel verificare se i titoli conseguiti all’estero attestino una qualifica supplementare rispetto a quella acquisita in Italia, non possono essere imposte condizioni sproporzionate o comunque incompatibili con il diritto dell’Unione Europea, quale ad esempio esigere l’indicazione del motivo per il quale si intende esercitare la professione in Italia anziché nello Stato nel quale è stata ottenuta l’abilitazione. Inoltre, i controlli non possono avere carattere sistematico, dovendo essere limitati ai soli casi nei quali vi siano indizi di un abuso del diritto dell’Unione europea, ovvero di un comportamento che miri ad ottenere un vantaggio derivante dalla normativa sovranazionale mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per la sua applicazione.
Alla luce di quanto esposto, si prega codesto Consiglio Nazionale Forense di voler fornire elementi utili a chiarire la questione, anche al fine di prevenire l’apertura di una procedura d’infrazione contro l’Italia […]”.

1. La Commissione ritiene di sottolineare, in via preliminare ad ogni altra considerazione, che il proprio ruolo si esplica in una funzione esclusivamente di supporto ermeneutico, e non anche prescrittiva. Nel sistema ordinistico in vigore in Italia, infatti, il Consiglio nazionale forense (così come ogni sua articolazione interna) non ha un potere di tipo gerarchico nei confronti degli ordini circondariali; questi ultimi sono costituiti in enti pubblici non economici a carattere associativo, e ciascuno di essi è dotato di una propria sfera di competenza e di piena autonomia, salve le prerogative di garanzia del Dicastero vigilante (Ministero della Giustizia). Sempre in via preliminare, deve ricordarsi che il C.N.F. è anche dotato di funzioni giurisdizionali ed è chiamato ad esprimersi quale giudice speciale in posizione di piena terzietà rispetto a tutti i ricorsi ad esso demandati dalla legge. Ciò a chiarire che le considerazioni che seguono non intendono essere, né possono costituire, atto di interferenza nell’esercizio delle funzioni amministrative assegnate dalla legge ai Consigli locali dell’ordine, né tanto meno anticipare le pronunzie che, rispetto a singole concrete domande di giustizia, il Consiglio nazionale stesso sarà tenuto a rendere in sede giurisdizionale.

2. La materia della tenuta degli albi forensi, ivi comprendendo i diversi procedimenti di iscrizione e cancellazione, è affidata come detto agli Ordini circondariali (art. 14 e segg., R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578). Nel caso l’interessato abbia a dolersi di un contegno non conforme alla legge da parte dell’Ordine può proporre ricorso al Consiglio nazionale forense (art. 31, R.D.L. cit.), e le decisioni di quest’ultimo sono a loro volta impugnabili dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, per motivi di legittimità. Lo stesso meccanismo di reclamo è conformato dal legislatore italiano con riferimento alle eventuale diniego di iscrizione che un avvocato proveniente da altro Paese UE dovesse subire, con conseguente lesione del proprio diritto di stabilimento (così l’art. 6, commi 7 e 8, d.lgs.l. n. 96/2001, normativa di recepimento della cd Direttiva stabilimento, al Dir. 98/5/CE). Va quindi recisamente smentita l’affermazione, avanzata all’interno degli esposti citati, secondo la quale il professionista sia privo di tutela giurisdizionale rispetto alle decisioni degli ordini che lo riguardano. Vale osservare il contrario: il sistema italiano appare particolarmente garantista, allorquando consente che le decisioni in materia di iscrizione in albi arrivino fino alla Suprema Corte, che – quale custode della nomofilachia – rappresenta la massima garanzia possibile per la tutela dei diritti.

3. Fatte queste doverose premesse, la Commissione rappresenta di aver già affrontato in passato in diverse occasioni la tematica del riconoscimento dei titoli professionali in base alla direttiva 98/5/CE anche nei suoi aspetti applicativi. In particolare, con parere 25 giugno 2009, n. 17, si è provveduto a fornire agli ordini un indirizzo interpretativo circa la corretta applicazione della più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di limiti al riconoscimento dei titoli professionali, con particolare riguardo alla sentenza 29 gennaio 2009, causa C-311/06, Cavallera. Si è, in particolare, richiamata l’attenzione dei Consigli circondariali sulla necessità di compiere, secondo i criterî enunciati dalla Corte, un’adeguata istruttoria sulla domande di iscrizione per distinguere in modo motivato i casi di professionisti stranieri intenzionati ad esercitare in buona fede il loro pieno diritto allo stabilimento in Italia dalle ipotesi – come descritte dalla Corte – di abuso del diritto europeo, sotto forma di “duplice passaggio” da uno Stato all’altro, senza l’acquisizione di qualifiche supplementari rispetto a quelle di partenza (ad es. laurea in giurisprudenza, trasformata in titolo professionale abilitante a mezzo di mero duplice riconoscimento, prima del titolo accademico e successivamente della qualifica ottenuta).

4. Va ribadito, anche in questa sede, che la sentenza nel caso Cavallera riguarda un diverso canale di accesso alla professione legale da parte di possessori di titoli stranieri, ed in particolare il sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali sancito dalla dir. 2005/36/CE e già dalla precedente 89/48/CEE. Tale processo è, nel nostro ordinamento, incardinato in forma accentrata presso il Ministero della Giustizia, che valuta in conferenza di servizi la riconoscibilità del titolo professionale di altro Stato membro, prescrivendo le eventuali necessarie misure compensative (al riguardo si segnala che il Ministero sta provvedendo a motivare ciascun singolo provvedimento di riconoscimento in base ai parametri di cui alla sentenza Cavallera). I principî dettati dalla Corte vanno però certamente applicati per quanto possibile anche all’altro canale di accesso alla professione nell’ambito dell’Unione europea, in seguito all’esercizio del diritto di stabilimento attuato per la professione legale con la già citata direttiva 98/5/CE. I principî che la Corte di Giustizia ha dettato sono dunque, in sintesi, i seguenti: quando a uno Stato membro è richiesto di riconoscere un titolo di formazione professionale, tale Stato membro non può essere tenuto ad accogliere la domanda di coloro che non dimostrino di aver acquisito alcuna competenza aggiuntiva all’estero né di aver sostenuto un esame che certifichi le loro competenze nelle materie oggetto della professione. La Corte ha quindi in sostanza chiarito che, pur essendo del tutto legittimo che gli Stati membri mantengano differenti modalità per l’accesso alla medesima professione regolamentata, tuttavia il contegno di colui che richiede un duplice riconoscimento dei propri titoli, rientrando nello Stato membro di provenienza senza dimostrare di aver acquisito alcun know how professionale aggiuntivo rispetto alla condizione di partenza, pone in essere un comportamento elusivo, giovandosi cioè di diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione europea per scopi difformi da quelli della libertà di circolazione dei professionisti e nello spazio europeo, ed in sostanza lucrando un indebito vantaggio rispetto ai professionisti connazionali, che hanno dovuto superare un regime di accesso effettivamente più severo, presidiato perfino – in taluni ordinamenti europei, e tra questi, in quello italiano – da norme di rango costituzionale (cfr. art. 33, comma 5, Cost.).

5. La Corte ha, in seguito, fornito alcune ulteriori precisazioni, che debbono essere tenute altrettanto in conto per la valutazione delle domande di accesso alla professione forense in Italia. Innanzitutto nel caso Pesla (causa C-345/08) essa ha chiarito che, anche per l’accesso al semplice tirocinio professionale, le autorità dello Stato membro ospitante possono pretendere non tanto e non solo una generica conoscenza giuridica, ma anche una padronanza degli strumenti del proprio diritto nazionale, onde garantire che l’attività professionale o di formazione professionale sia adeguata e conforme all’interesse dell’ordinamento. Questi criterî, va ricordato, si collocano a valle di una precedente giurisprudenza (causa C-313/01, Morgenbesser) che impone all’Ordine forense di valutare in modo ampio e sistematico il curriculum del richiedente l’iscrizione, per verificare in concreto quali siano le abilità acquisite, anziché basarsi sul solo dato formale della denominazione o della provenienza del titolo di studio posseduto.

6. Di recente sono intervenute due ulteriori pronunce della Corte di Lussemburgo: in una prima (causa C-118/09, Koller) i giudici hanno chiarito che uno Stato membro non può negare il riconoscimento di un titolo professionale per il solo fatto che il richiedente non ha effettuato il tirocinio pratico nello Stato membro di destinazione, una volta che l’interessato ha provato l’effettivo svolgimento della professione all’estero. Un secondo intervento si è avuto solo pochi giorni or sono, con la sentenza 3 febbraio 2011, causa C-359/09, Ebert: in questo frangente la Corte ha precisato che il sistema di ordini o camere di avvocati rappresenta il presidio di interessi pubblici fondamentali quali il rispetto della deontologia, il controllo sui professionisti e la loro responsabilità, e la correlata organizzazione in senso pubblicistico della professione; ne consegue che per beneficiare del diritto di stabilimento, all’avvocato comunitario può essere richiesta l’iscrizione in albi ed elenchi, alle medesime condizioni previste per i professionisti locali e con gli stessi requisiti.

7. Come accennato, l’ordinamento italiano ha recepito la direttiva 98/5/CE sullo stabilimento degli avvocati con il decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96. Il procedimento per lo stabilimento degli avvocati comunitarî è basato, come noto, su due fasi: una prima è l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo all’uopo istituita (art. 6), che consente l’esercizio professionale con le sole limitazioni prescritte dall’art. 8; la seconda fase – peraltro eventuale – è quella della stabilizzazione, con cui lo stabilito, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo, acquisisce il titolo professionale italiano di “avvocato” e diventa a tutti gli effetti “integrato” (art. 12 e ss., d.lgs.. cit.). È in questo momento che l’ordine circondariale è onerato di una più ampia funzione di verifica dell’attività del professionista: egli può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale previa verifica dei predetti requisiti di effettività e regolarità dell’esercizio professionale, che il Consiglio competente verifica tramite l’analisi delle pratiche seguite e delle prestazioni svolte dal richiedente. Nel caso tali presupposti non risultino sussistere, l’interessato sarà tenuto a sostenere la richiamata prova attitudinale, secondo il procedimento ordinario di riconoscimento dei titoli professionali di cui all’art. 22, comma 2, del d.lgs. 206/2007. A questo ultimo procedimento sono senz’altro applicabili in via diretta i principî esplicitati dalla Corte nel caso Cavallera e quindi, in assenza delle condizioni necessarie, l’accesso al riconoscimento del titolo può essere rifiutato.

8. Sulla scorta di quanto precede è agevole comprendere per quale motivo questa Commissione abbia indicato agli ordini forensi locali la necessità di farsi parte diligente nella corretta analisi delle richieste di stabilimento ed integrazione. Non vi è dubbio infatti che, per quanto maggiori spazi di apprezzamento valutativo competano al Consiglio dell’ordine alla fine dei tre anni di esercizio professionale con il titolo di origine e di intesa con altro avvocato iscritto nell’albo ordinario, e non piuttosto all’inizio di tale triennio (argomenta ex artt. 13, comma 3, d. lgs. 96/2001 che prevede le citate facoltà di verifica e controllo, compreso un eventuale colloquio), tuttavia anche in sede di prima ricezione della domanda di iscrizione nella sezione stabiliti i Consigli dell’ordine conservano uno spatium delibandi che va esercitato proprio nei limiti indicati dalle direttive rilevanti e dalla Corte di giustizia, e poco sopra ricordati.

9. Si ritiene pertanto in conclusione che il Consiglio dell’ordine conservi il potere di negare l’iscrizione nella sezione avvocati stabiliti dell’albo custodito, allorquando rilevi – alla luce dei criteri forniti dalla giurisprudenza comunitaria – che si versi in un caso di abuso del diritto dell’Unione europea. Contro tale decisione il richiedente può esperire i mezzi di gravame previsti dalla legge, che prevedono il reclamo dinanzi al Consiglio nazionale forense, e la eventuale impugnabilità delle sentenze di questo di fronte alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione.

10. Il quesito proposto evidenzia inoltre le possibili criticità derivanti da un’opera di controllo sistematico e penetrante degli ordini forensi sulle richieste di stabilimento ed integrazione provenienti da Stati membri quali la Spagna, che finora non si sono dotati di alcun sistema di verifica delle competenze professionali per l’accesso alla qualifica di avvocato. Si è segnalato, più in dettaglio, che risultano casi di richieste di informazioni agli interessati circa l’effettivo svolgimento di attività professionale nel Paese di provenienza e il possesso delle conoscenze linguistiche proprie del Paese medesimo. Al riguardo, va evidenziato come singoli e specifici casi di richieste di stabilimento ed integrazione di professionisti abilitati in altro Stato membro dell’Unione europea possono essere oggetto di valutazione ed acquisizione di ulteriore documentazione in presenza di indici di anomalia che rendano ragionevole un approfondimento, peraltro non invasivo, dell’Ordine circa l’esatto curriculum del richiedente l’iscrizione. È questa l’ipotesi di domande che provengano da cittadini italiani, laureatisi in Italia e che spesso hanno svolto il tirocinio nel nostro Paese; tali soggetti avanzano la richiesta di stabilimento sulla base di titoli stranieri di formazione anomala, ossia emessi in un arco di tempo assai breve (solitamente un anno o poco più), e dai quali non emerge alcun legame con il Paese di emissione dei titoli. In presenza di tali indici di anomalia appare ragionevole anche un approfondimento relativo alle competenze linguistiche. È noto infatti come alcune organizzazioni commerciali italiane offrano agli stessi cittadini italiani laureati in giurisprudenza servizi di supporto al riconoscimento dei titoli, proponendo il disbrigo di tutte le pratiche inerenti sia l’omologazione della laurea in Spagna, sia l’iscrizione al locale “collegio degli avvocati”. Alcune di esse (cfr. ad esempio le esplicite indicazioni presenti al sito www.omologazionetitoli.it) giungono a promettere l’intero espletamento delle pratiche senza che il candidato abbia alcuna conoscenza della lingua del Paese dell’Unione europea di “transito”. È evidente, a questo punto, che l’ordine, in presenza di evidenti elementi indiziarî, dovrà accertarsi se la domanda provenga o meno da un soggetto che ha un qualsivoglia legame con il Paese nel quale afferma di aver esercitato al professione. La sussistenza di prassi elusive di questo tipo andrebbe utilmente segnalata a questo Consiglio, anche al fine di consentire l’attivazione di meccanismi di consultazione bilaterali o in sede europea.

11. Diversamente pare doversi opinare con riferimento ad eventuali richieste di informazioni attinenti ai motivi personali in base ai quali i richiedenti avrebbero deciso di esercitare il diritto di stabilimento. Tali motivi dovrebbero appartenere al cd. “foro interno” dell’interessato, e non paiono assumere rilievo giuridico nelle fattispecie de quibus, allo stesso modo nel quale non assumono alcuna rilevanza i motivi personali in base ai quali un avvocato iscritto in un albo tenuto da un certo Consiglio dell’ordine decida di trasferire la propria iscrizione in altro albo tenuto da un Consiglio dell’ordine situato in altro circondario di tribunale, purché l’avvocato abbia, nel circondario di destinazione, residenza o domicilio professionale.

12. Il quesito pervenuto pone inoltre l’ulteriore questione se l’ordine forense possa procedere ad una verifica sistematica degli albi, al fine di individuare soggetti che abbiano già ottenuto in passato l’iscrizione sulla base di un procedimento che costituisca nel suo complesso un abuso del diritto dell’Unione. In linea generale l’ordine forense ha l’espresso potere-dovere, conferito dalla legge (art. 16, comma terzo, R.D.L. 1578/1933), di procedere alla verifica periodica degli albi ogni anno, e ciò avviene nella prassi per verificare la sussistenza di tutti i presupposti di iscrizione, in modo non discriminatorio (si consideri ad esempio il dovere di verifica circa situazioni di incompatibilità, di pendenza di procedimenti penali etc.). D’altra parte si è evidenziato, già nel ricordato parere di questa Commissione n. 17/2009, che l’iscrizione nell’albo protratta per lunghi periodi ingenera inevitabilmente l’affidamento di terzi e consolida un’aspettativa dell’interessato, con la conseguenza che la cancellazione disposta dall’ordine potrebbe riverberarsi su processi in corso e sugli interessi di clienti in piena buona fede. Si è pertanto suggerito di procedere alla cancellazione di soggetti già iscritti solo quando le circostanze evidenzino un documentato interesse pubblico all’espunzione del soggetto dall’albo, dando così corpo a tutti i presupposti per un provvedimento amministrativo di revoca della precedente deliberazione. Se si considera che molte delle iscrizioni in questione sono state operate dagli ordini prima dell’intervento della Corte di Giustizia con la sentenza Cavallera, e dunque in tutto il periodo 2001-2009, non appare di per sé illegittimo il contegno del Consiglio dell’ordine che, per evitare il perpetuarsi di situazioni di abuso del diritto dell’Unione europea, a tutela dell’interesse pubblico al corretto esercizio della professione forense (Corte cost. n. 405/2005) proceda a verifica delle posizioni di coloro che hanno esercitato il diritto di stabilimento provenendo da Paesi privi di selettivi criteri di accesso alla professione, e comunque in circostanze di tempo o di fatto tali da ingenerare il ragionevole dubbio circa l’integrazione della descritta fattispecie abusiva, fino ad arrivare nei casi concreti anche all’ipotesi della revoca dell’iscrizione a suo tempo disposta. Anche l’eventuale cancellazione disposta all’esito delle verifiche intraprese, oltre ad essere motivata da un comprovato interesse pubblico all’espunzione dall’albo del soggetto che non aveva titolo per esservi iscritto, è provvedimento ovviamente “giustiziabile” nelle forme e di fronte alle Autorità già indicate. Deve peraltro aggiungersi che, in relazione alle esigenze di protezione dell’affidamento e di tutela della clientela e dei terzi, la produzione degli effetti dell’eventuale provvedimento di revoca dell’iscrizione a suo tempo disposta dovrebbe essere modulata in forme compatibili con le cennate esigenze, e andrebbe tendenzialmente esclusa la revoca con effetti ex tunc, di per sé idonea a travolgere tutti gli atti compiuti dal soggetto cancellato. Tali verifiche vanno comunque effettuate tenendo conto delle posizioni individuali dei soggetti iscritti, senza fare ricorso a strumenti di verifica standardizzati (ad es. formulari e questionari inviati indistintamente a tutti gli iscritti).

13. In conclusione, questa Commissione ritiene conforme allo spirito delle norme europee che gli ordini circondariali svolgano un’attività di attenta vigilanza sulle richieste di iscrizione nell’elenco degli avvocati stabiliti al fine di prevenire, in forma non discriminatoria, casi di abuso del diritto dell’Unione Europea. Ritiene irragionevoli forme e prassi concrete di verifica e di controllo a carattere sistematico che si rivelino sproporzionate rispetto alle finalità di tutela dell’interesse pubblico al corretto esercizio della professione. Ritiene che non esorbiti dalle proprie competenze il Consiglio dell’ordine che effettui controlli anche sulle iscrizioni già disposte, perché il relativo potere-dovere di verifica rientra nel più generale potere di revisione degli albi regolato dalla legge. Ritiene infine che gli eventuali provvedimenti che dovessero essere assunti all’esito delle citate verifiche dovrebbero comunque salvaguardare l’affidamento incolpevole dei terzi e della clientela, evitando il rischio di travolgere attività difensive compiute in costanza dell’iscrizione poi revocata.

14. Ad abundantiam va segnalato che la situazione attuale è verosimilmente destinata ad esaurirsi in tempi relativamente brevi, posto che la Spagna – anche sulla scorta di un forte incoraggiamento degli altri Stati membri – ha introdotto un tirocinio formativo obbligatorio ed un esame di Stato per l’accesso alla professione forense, che troveranno applicazione a far data dal 31 ottobre 2011 (ley de 30 de octubre, sobre el acceso a las profesiones de Abogado y Procurador de los Tribunales).

Consiglio Nazionale Forense (rel. tutti i Consiglieri), parere del 23 febbraio 2011, n. 33

Classificazione

- Decisione: Consiglio Nazionale Forense, parere n. 33 del 23 Febbraio 2011
- Consiglio territoriale: COA, delibera (quesito)
abc, Prassi: pareri CNF

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